Enzo Guaitamacchi in Delitti rock afferma: “Morire da giovani è la migliore mossa di marketing per un artista“, una frase provocatoria che esaspera l’ideale del mondo rock fatto di maledizione e sofferenza. Ci rifiutiamo di crederlo, soprattutto oggi al 31° anniversario della morte di Ian Curtis, leader dei Joy Division. Un leader carismatico ma inconsapevole, morto suicida prima ancora di assaporare la grande popolarità. Anton Corbijn nel film biografico “Control“, ci racconta di quella che era una vita tranquilla: un ragazzo della provincia inglese che sposa da giovanissimo una coetanea e si ritrova subito diviso tra l’essere padre di una bambina e coltivare il sogno di una band. A questa ordinarietà si contrappone la terribile malattia di Ian, l’epilessia, che lo destabilizza fisicamente ed emotivamente.
Una personalità fragile e infelice, che è in lotta perenne con i suoi demoni interiori e che trova una valvola di sfogo nelle atmosfere cupe post punk / new wave di quegli anni (77-80). Schiacciato dal peso dei doveri familiari, travolto dal nuovo amore per la giornalista belga Hannik, angosciato dagli esordi della band, abbattuto dai continui attacchi di epilessia, il 18 Maggio 1980 Ian Curtis decide di liberarsi da se stesso suicidandosi. In eredità ci lascia due album in cui ci racconta a modo suo di questa depressione cronica. Niente avventure da rockstar, si parla di un male di vivere non lontano dalle persone comuni, ed è questo che l’ ha reso un idolo inconsapevole. Anzi, forse la celebrità e lo sfarzo dei grandi miti del rock l’avrebbero potuto salvare da se stesso.