h. 12.30 Arrivo nella hall ovattata di velluto dell’Hotel Aldrovandi. Il percorso in motorino su per il viale delle Belle Arti, col caldo sole novembrino, spiega perché un romano ami tanto la sua città. Blogger e giornalisti di età varie. Accoglienti, interessanti e simpatici i primi, spocchiosi, noiosi e immotivatamente altezzosi alcuni dei secondi (e pure vestiti male).
h. 13.00 Aperitivo e chiacchiere. I blogger coi blogger, i giornalisti coi giornalisti, gli chef fanno fotografie e salutano.
h. 13.45 Pranzo. Finally. Il fil rouge è ovviamente il caffè. Ai tavoli mescolano chef, sommelier, blogger e giornalisti: scelta evidentemente oculata per tentare di far socializzare mondi che, chissà perché, convivono faticosamente. Sui piatti una mascherina da indossare: il pranzo è al buio. L’obiettivo è aguzzare i cinque sensi, ognuna delle portate è abbinata a uno di essi. Tra il serio e il faceto si scopre che mangiare senza vedere non è esattamente uno scherzo. Si comincia con un antipasto di Lumache alla mentuccia con fagioli e caffè, preparato dallo chef che gioca in casa: Oliver Glowig, da poco approdato all’Aldrovandi dove è arrivato con due stelle Michelin appuntate sulla candida divisa. Il senso messo alla prova è il gusto e l’effetto è indubbiamente “forte” data la dominanza di caffè e mentuccia.
h. 14.00 Il Primo. Spaghetti freschi al caffè con ricotta e pancetta, un’idea del luminoso Antonio Caputo giunto da La Taverna del Capitano. Un piatto eccessivamente sapido nei primi due bocconi e poi goloso nei due successivi. Poi finito, purtroppo. Ci hanno detto che a questo era abbinato l’olfatto (non pervenuto).
h. 14.30 Il Secondo. Fossile di branzino. E che è? Un filetto di branzino cotto dentro un sasso di argilla per conservare tutte le caratteristiche organolettiche del pesce e, soprattutto, per far scena con la forma del sasso fatto a chiccone di caffè. Accompagnato da un contorno di crema di castagne con dadolata di verdure servita in una scatoletta di sardine, e da un bicchierino di torbido infuso di argilla verde con foglie di origano (?) e foglie di caffè (?). Molto fumo e pochissimo arrosto, e in effetti il senso da aguzzare era la vista (è stata l’unica portata senza mascherina) benché il pesce fosse davvero ben cotto e saporito. Chef Peter Brunel.
h. 14.45 Il secondo Secondo. Maialino da latte, carciofi alla giudia, tartufo nero e agrodolce di lampone. Favoloso. L’udito era il senso coinvolto dalla croccantezza del carciofo e dalla crosta del maialino, tenerissimo all’interno per una lunga cottura a basse temperature.
h. 15.10 Dessert. Mio Caro. Cioè: Mio Caro è proprio il nome del dolce. Una sorta di cremino da mangiare con le mani sfidandone l’implacabile rottura multipla che ha indotto tutti a fare la scarpetta con le dita poi leccate accuratamente, ovvio. Mio Caro ha avuto tatto. Ottimo Gianluca Fusto, e anche parecchio simpatico.
h. 15. 45 Caffè Origin India, naturalmente Nespresso. Intensissimo e amarissimo. Guai a metterci lo zucchero e hanno ragione.
Risultato di questo insolito pranzo sono stati:
1. Rafforzamento della convinzione che la maggior parte dei giornalisti enogastronomici (ops, scusate, ora si dice “food ” eh!) dovrebbe aggiungere a i vari corsi su legumi e distillati, anche dei master in umiltà e socialità.
2. Non vedere quello che si mangia attiva davvero gli altri sensi, ma non vedendo purtroppo si tende a separare gli elementi che compongono i piatti perché non si riesce ad amalgamarli con le posate.
3. Il caffè sta bene ovunque, se si è capaci di abbinarlo, ma l’argilla non si dovrebbe mai mangiare.
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