Adoro i concerti infrasettimanali. Ho come l’impressione che ci sia solo gente a cui frega davvero di chi è sul palco e non è uscita giusto per…
A sentire gli Hot Chip eravamo forse un centinaio scarso di persone. Si, ok, di lunedì sera ci sta.. Però, se da un lato mi piace arrivare comodamente davanti al palco e non avere intorno gente che invade il mio spazio vitale, dall’altro mi sento un pò in imbarazzo verso gli artisti. Inizio a pensare che nel backstage staranno dicendo frasi tipo: “This is a city of assholes. Why no one came to our gig? We’ll not come anymore in this fuckin’ city!!!“.
Seghe mentali a parte, alle 22 spaccate i cinque inglesini, più una (bellissima, ndr) new entry alla batteria, iniziano a darci dentro. Pochi convenevoli, giusto qualche “sciao M-lano” e poi subito l’atmosfera si fa estiva e divertente. Tante contaminazioni: chitarra rock, basso funk, percussioni afro e sintetizzatori anni ’80, che si fondono alla perfezione con le voci di Alexis Taylor e Joe Goddard.
Impeccabile anche la scaletta, un’ora e mezza senza mai tirare il fiato. Ritmo puro e secchiate di allegria ma, soprattutto, sul palco hanno tutti una gran voglia di suonare e far divertire la gente. Lo si capisce anche dal fatto che c’è una continua rotation di strumenti. Tutti suonano tutto e per di più lo fanno da dio.
I brani del nuovo album In our heads funzionano alla perfezione e si incastrano benissimo con quelli più conosciuti come Over and over e Ready for the floor.
Nonostante gli Hot chip abbiano il frontman meno frontman in circolazione (più di una persona mi ha confessato che gli ricordasse il professore di una qualche materia pallosa studiata all’università), devo dire che ci hanno regalato una serata di pura spensieratezza, per poi congedarsi con un bel “we hate spanish“, che di questi tempi non può che far sorridere.