Quella di Cantina Mesa è la scommessa di Gavino Sanna, forse uno dei pubblicitari italiani più famosi e premiati, che dal 2004 ha voluto puntare sulla sua terra, la Sardegna, con un progetto giovane e attento. La cantina si trova a Sant’Anna Arresi, nelle valli di Porto Pino: 70 ettari nel cuore del Sulcis Iglesiente, in una valle sfiorata dal maestrale e a pochi km dal mare, dove viene prodotto ‘Buio”, il Carignano del Sulcis e il Carignano barricato ‘Buio Buio”.
Da qui parte la sfida imprenditoriale di Cantina Mesa, accompagnata da oculate scelte di marketing e comunicazione. La veste grafica della produzione Mesa colpisce alla prima occhiata: le etichette in bianco e nero che avvolgono le bottiglie scure come il carbone (che una volta era la ricchezza di queste terre) si ispirano graficamente ai tappeti insulari tessuti con il vello delle pecore sarde. Lo stesso design che avvolge le pareti di ingresso dello stabilimento Cantina Mesa. Abbiamo avuto l’opportunità di fare qualche domanda a Gavino Sanna per conoscere i primi passi di questa avventura ed i motivi di alcune determinanti scelte estetiche.
Come era impostata la “comunicazione del vino” nel 2004, quando muove i primi passi Cantina Mesa, ed in che modo si è voluto cambiare registro?
Domanda complessa e ampia. Cercherò di essere sintetico nella risposta. In generale la comunicazione del vino la distinguo tra quella nazionale e quella extra; in particolare quella del Nuovo Mondo. Quest’ultima spesso è sempre stata più innovativa, fuori dai soliti schemi e contenuti, più impattante. Vuoi per la minor tradizione come produttori di vino di certi paesi, vuoi per la maggior deficienza in termini di marketing e advertising tipica del nostro paese. In soldoni; gli States avranno una storia vitivinicola “solo” secolare anziché millenaria; ma loro sì sanno cos’è l’advertising con la A maiuscola. E non solo. Comunque negli anni le cose sono cambiate anche nel nostro paese.
Per ciò che concerne Mesa non abbiamo voluto cambiare nulla; abbiamo semplicemente seguito una nostra strada: strategia conseguente anche ad alcuni dati di fatto. Nel mondo del vino nel 2004 eravamo il classico last comer; senza una storia come produttori che affondasse le radici in un passato più o meno remoto; inoltre nati in un luogo –il Basso Sulcis in Sardegna- che non ha neppure una fama che possa essere non dico quella di Bolgheri, delle Langhe o del Sud Tirolo; ma neppure quella del Prosecco, del Collio, dell’Etna e via dicendo. Per cui nessun richiamo alla terra, alle antiche radici, al trisavolo già nobile e fattore. No, fondo limbo e protagonismo assoluto da parte delle nostre prime meravigliose bottiglie. Una headline amichevole, che ci permettesse di approcciarci al potenziale wine lover in modo soft. Insomma un pacato “Buongiorno permette che mi presenti?” ; come si conviene ad uno sconosciuto ben educato e di buone intenzioni che voglia farsi conoscere. Un esempio? La parata delle nostre bottiglie e la headline “Sorridi, sei tra amici”. Certo in altre uscite abbiamo poi suggerito la nostra origine sarda (seppur in modo indiretto ed elegante) oppure ci siamo in alcuni casi adattati alla particolarità dell’occasione di uscita o al mezzo stesso. Come nel caso della nostra partecipazione alla manifestazione del Girotonno nell’anno in cui il nostro Carignano Buio Buio ha ottenuto i 3 Bicchieri ed altri prestigiosi riconoscimenti anche internazionali. In quel caso specifico; per il giornale che usciva ad hoc in occasione della manifestazione di Carloforte abbiamo realizzato un soggetto con la nostra referenza vincente e una semplice parola come headline: RAIS. La baseline riportava semplicemente alcuni dei premi ottenuti dal nostro Buio Buio 2010. Chi frequenta il Girotonno e ha aperto quella pagina ha capito senza bisogno di altre parole il parallelo tra il Rais della tonnara e il nostro vino, e cosa volevamo quindi suggerire.
L’appeal emotivo di chi incontra e osserva per la prima volta una bottiglia della Cantina Mesa è sicuramente diverso da quello veicolato dalle classiche (solite?) bottiglie di vino. Quale è stato il processo creativo che ha portato alla definizione della bottiglia, del logo e dell’etichetta delle bottiglie Mesa?
Con una punta di orgoglio devo dire che dopo l’uscita delle nostre bottiglie c’è stato un proliferare di bordolesi tronco-coniche e rigorosamente nere in Sardegna. Così come più di una cantina ha ripreso la forma delle nostre 500 ml, quando addirittura non l’idea stessa di fare il mezzo litro come referenza “piccola”. Non siamo stati certo i primi in Italia a optare per questo formato, ma almeno sull’Isola una piccola scossa l’abbiamo sicuramente data. Le prime bottiglie da 750 ml di MESA pesavano la bellezza di 900 grammi ed erano assolutamente nere. Così le volevo: nere nel vestito, forti, austere e dignitose, come le donne di Sardegna; da sempre protagoniste della storia dell’isola e depositarie dei suoi valori più antichi e profondi. Le etichette minimali, che rappresentano stilizzati gli originari motivi dei primi tappeti sardi. Bianchi e neri, come il vello naturale delle pecore. La seconda parte un tocco di colore; che rende omaggio ai policromi e affascinanti costumi di Sardegna.
Un packaging insomma estremamente grafico e moderno ma che ha le sue radici nella millenaria civiltà dell’isola, un design che in modo nuovo racchiude e racconta uno dei più antichi tesori di Sardegna, il vino appunto. Circa il logo poi, per quel che concerne il “segno” grafico da una parte rientra sempre in quella volontà mai abbandonata di dare una vesta moderna a tutto ciò che concerne l’immagine di Mesa –qualcuno ha persino definito “futurista” il nostro logo-, dall’altro lato è il risultato dei mie anni di studio e lavoro a New York; ma è un aspetto minoritario. Qui l’essenza è il nome stesso MESA, al di là che sia stato poi espresso con un font reinventato, un severo Futura o un classico Bodoni. Mesa in Sardegna è la tavola dove anticamente le donne preparavano il pane. In queste quattro lettere è racchiuso un intero universo. La famiglia, l’importanza dei frutti della terra, l’amore per il buon cibo, le tradizioni alimentari mediterranee di cui pane e vino sono elementi fondamentali. Inoltre, la tavola per noi “latini” non è semplicemente il posto dove ci si alimenta e disseta; no è il luogo centrale che unisce la famiglia, gli amori, le amicizie, il piacere. Un luogo emotivo prima ancora che fisico.
Ecco “sa mesa” è un simbolo di quella Sardegna che ho nel cuore, quella Sardegna buona, sana e pulita che ho sempre rappresentato ovunque nel mondo e che ho voluto celebrare questa volta attraverso uno dei suoi prodotti d’eccellenza. Possiamo dire che la mia avventura di vigneron è la mia ultima campagna pubblicitaria regalata alla mia isola: i media però non sono billboard o spot televisivi; ma bellissime bottiglie che esaltano la bellezza di questo luogo unico attraverso la freschezza del Vermentino o le note balsamiche dei Carignano. Perché in quei vini trovi il vento forte da Nord, la brezza marima, la forza del sole e la storia millenaria di Sardegna.
Ovviamente se non è buono il vino…cade tutto quanto il resto. Ma quanto pesa l’immagine con la quale Cantina Mesa ha deciso di portare in giro il proprio prodotto e la percezione da parte degli importatori stranieri?
Durante una delle prime riunioni con il team della Cantina espressi proprio questo concetto: io studio un “vestito” che sia accattivante, che possa costituire uno stimolo visivo tale da portare un potenziale acquirente a fare il primo passo: cioè essere attratto, incuriosito e avvicinarsi quindi al prodotto. Una volta che costui ha la bottiglia in mano o meglio sul tavolo, beh…poi spetta al vino farsi valere. Non c’è alcun packaging che possa funzionare se poi il prodotto non c’è. Chiunque può essere fregato una volta, ma mai tutti tutte le volte. E poi, il vino è sostanza; tanto lavoro e fatica. Non si può pensare di sostituire tutto questo con un’immagine vincente.
Circa l’export qui le cose si fanno più complicate; in primis perché ho delegato alla retro-etichetta la narrazione di tutte quelle informazioni “di servizio” che all’estero sono importanti. In secondo luogo perché non si può pensare di approcciare diversi mercati -e molto distanti tra loro in termini culturali prima ancora che geografici- con un unico messaggio. Va bene che la globalizzazione avvicina (o appiattisce secondo alcuni) ma ci sono poi caratteristiche nazionali e individuali che restano. Nel caso dell’estero direi che ha pesato sicuramente di più la qualità del vino che l’immagine. Se dovessi selezionare una tipologia di consumatore che è maggiormente attratto dal valore dell’immagine; direi che la pole position se l’aggiudicano i giapponesi. Non serve vi parli io del gusto estetico di questo paese verso un certo tipo di grafica, design, comunicazione.
Anche i nomi dei vini e la descrizione sulle etichette del retro bottiglia sembrano non aver lasciato spazio all’improvvisazione. Come sono stati delineati ?
Tutto tranne che improvvisazione! Ancora una volta pensiero e lavoro. Per le retroetichette il brief era chiaro: non volevo la solita retro-etichetta. No, non mi interessava neppure dare indicazioni di “servizio” come la temperatura ideale o il cibo cui accompagnarsi. Volevo invece delle piccole poesie; direi una sorta di haiku che sapesse raccontare in modo originale alcuni caratteri del vino e del territorio. A una prima lettura veloce sembrano esercizi poetici messi lì per essere appunto stravaganti; ma invece c’è sempre una corrispondenza tra il vino e il suo racconto. Nella descrizione del nostro Carignano Riserva si legge “corpo forte di tronco secolare che racconta nell’uva il vento e il mare mai spenti”, parole non scelte a caso, per vezzo creativo ma per raccontare questo vino di buona struttura, che nasce da vigneti con antichi alberelli a piede franco, che da cent’anni vivono sulle sabbie di Porto Pino di fronte al mare; accarezzati dal maestrale e dalla brezza salata. Vento e mare che danzano davanti alle vigne da tempi infiniti, senza mai fermarsi appunto.
I nomi fanno parte anch’essi di quella linea che voleva comunicare in modo diverso e innovativo la Sardegna. Forse a livello di marketing poteva servire dare ai vini nomi dal profumo “etnico”, che so chiamarli con i nomi delle nostre vigne: Bentu Estu, Sa Carubbedda, Su Baroni…ma no, assolutamente! Mi riportavano a quella comunicazione tipica nostra che ci vede come nel ballo tondo: sempre rivolti a guardarci tra noi sardi, a chiuderci. Così i nomi sono nati dall’osservazione dei primi campioni di vino. Il nome Buio, perché il vino si presentava con un colore carico, un rubino intenso e scuro, con riflessi di un blu profondo. Chiamarlo Buio fu naturale, anche perché suonava bene all’orecchio. Il Giunco è una pianta che caratterizza la nostra zona marittima, tra l’altro nell’isola è sempre stato impiegato per fare bellissimi cesti. La delicatezza vegetale e floreale di questo bianco, gli incredibili profumi che rapiscono il naso per poi scivolare via solo un attimo e tornare ancora più pregnanti al naso e poi in bocca; ricordano proprio la leggerezza e il dolce movimento dei giunchi mossi dal vento. Moro è un tributo al vitigno simbolo dell’enologia sarda: il Cannonau. E il moro, o meglio i 4 Mori, sono il simbolo stesso dell’isola e della sua bandiera. E così via sino a Malombra che è un vino non per tutti, che non si concede al primo sorso ma che bisogna saper capire per apprezzare sino in fondo. Un vino capace di far innamorare e perdere la testa a un uomo: come Malombra, affascinante e seducente entreinesue in un racconto dello scrittore Giancarlo Fusco.
Detto ciò, sì i nostri vini si stanno affermando nel panorama vitivinicolo indubbiamente in virtù della loro qualità –è di pochi giorni fa l’ennesima medaglia ottenuta ad un concorso internazionale in Asia- ma indubbiamente l’aspetto estetico ha contribuito a rendere il vino Mesa “invitante”, e in tutto questo assolutamente nessuna improvvisazione. Guardi voglio essere onesto ultimamente ho visto qualcuno proprio in Sardegna scimmiottare l’idea di utilizzare versi poetici –che poi neppure tali sono- per narrare l’anima del vino. Beh, le assicuro che finita la lettura di quanto scritto uno si domanda: “e allora!?”. Non c’è alcun nesso, o per lo meno è così criptico e non palesato; tra ciò che si legge e la bottiglia che lo veicola. Che c’azzecca quanto scritto con il vino è un mistero assoluto. Chissà forse volevano essere esoterici oltre che poetici… Comunicare significa anche essere semplici, diretti. Gli intellettualismi esagerati o snob sono l’antitesi di una buona comunicazione commerciale.