Club to Club è un festival relativamente giovane nel panorama europeo, ma negli ultimi tre/quatto anni è riuscito – con merito – prima ad attirare e poi a conquistare i favori del pubblico e della critica. Specialmente nelle ultime due edizioni gli occhi di tutti erano puntati su questa kermesse, capace di attirare anche un buon numero di stranieri (ma non ancora una migrazione di massa, complice anche il periodo pre-invernale): lineup sempre più vigorose, con un buon equilibrio fra headliner di grande richiamo e astri nascenti dell’elettronica, e location sempre più importanti e capienti.
Ve lo raccontiamo a parole e con le belle foto di Dario Monetini.
Quella di quest’anno, a conti fatti, ci ha proposto probabilmente il format più funzionale, che connubia le esigenze del pubblico (perché la logistica non va sottovalutata) e la crescita esponenziale di attenzione verso il festival. Dobbiamo però dire che, nonostante l’assoluto successo di un format come l’ABSOLUT SYMPOSIUM – headquarter dell’evento a pochi passi dal Lingotto Fiere (dove si sono consumati i due act principali) – le peregrinazioni in lungo e in largo per la bella Torino un po’ ci mancano. Soprattutto l’anno scorso eravamo rimasti piacevolmente colpiti dalla bellezza scenografica delle Officine Grandi Riparazioni, quest’anno assenti e sostituite dal padiglione del Lingotto Fiere, sicuramente più adeguato a raccogliere la folla giunta per gli show del Venerdì, mai così importante nell’economia del festival negli ultimi anni. Crediamo, quindi, che la soluzione più affascinante e funzionale, in vista degli anni prossimi, passi anche attraverso la riproposizione del network che il Club to Club lo ha ‘fatto’, e di cui troviamo testimonianza nel nome stesso, con il potenziamento della logistica e l’ampliamento del programma a più ore della giornata. Qualcosa che, insomma, possa avvicinare sempre più C2C a quell’agognata offerta di livello europeo, che a livello artistico c’è già e lo ha meritatamente posizionato sul primo gradino del podio virtuale dei festival più importanti dell’Autunno.
Abbiamo sempre apprezzato molto la lucida e minimale offerta del Club to Club, che ha saputo corredare la propria offerta musicale con sempre più spazi alternativi, come i talk, gli showcase e le installazioni in giro per la città. L’ABSOLUT SYMPOSIUM, sebbene frequentato principalmente dagli addetti ai lavori (meglio così ndr), è la quadra di un cerchio che aveva qualche debolezza nella Fondazione Re Rabaudengo utilizzata gli anni precedenti, un po’ carente dal punto di vista logistico e decisamente piccola per le ambizioni di Xplosiva, la company dietro al format torinese.
Ma parliamo di musica, e partiamo con uno degli show sicuramente più attesi e simbolici, emblema della crescita del festival, sempre più aperto alle contaminazioni e alla musica più “leggera”: Chet Faker. Avendolo ascoltato anche a Milano, ciò che ci ha favorevolmente colpiti è stata la dimensione più intima del concerto, a nostro parere la migliore per godere di questo futuro nome grosso dello scenario musicale internazionale. Sorprendente, così come nella città lombarda, l’attaccamento del pubblico nei suoi confronti.
Fra qualche giorno, però, vi racconteremo di quando Nick, in arte Chet Faker, lo abbiamo incontrato in una delle stanze del SYMPOSIUM.
Tante sorprese appunto, come nel concerto del giorno dopo, ancora all’Hiroshima Mon Amour. Dei Primitive Art, italianissimi, avevamo ottime referenze, e dopo averli sentiti dal vivo possiamo confermarne la bontà. La loro musica è difficilmente classificabile: ragionata, tenebrosa, tribale, enigmatica. Pensiamo che un ascolto potrebbe semplificarvi la questione.
Subito dopo, è stato il momento per il protagonista di giornata: Ben Frost, anche lui australiano (ma trapiantato in Islanda), anche lui barbuto, ma dall’approccio ‘leggermente’ più violento. Basti pensare alla chitarra con la quale ha squarciato – come un fulmine – il silenzio dell’attesa: la sorpresa non è stato tanto in questo, ma nel fatto che il registro tenuto durante tutto il concerto sia stato il medesimo. Se pensavamo di trovarci di fronte a un live di elettronica drone, sì vigorosa per i nostri timpani, in realtà in certi istanti si aveva l’impressione di trovarsi a un concerto di musica metal, con gli strobo a rendere tutto più difficile per i nostri centri percettivi. Il nostro umore è stato decisamente positivo di fronte a questa scelta, ma non possiamo dire che sia stata una cosa facilmente digeribile.
Capitolo a parte merita lo showcase di NOISEY tenutosi all’AC Hotel nel pomeriggio: latitudini musicali opposte a quelle proposte da Frost, con un Clap! Clap! (aka Digi G’Alessio aka Cristiano Crisci) sempre più portabandiera di un’Italia musicale che ha voglia di spaccare i culi, e ci riesce benissimo. Il suo è stato un viaggio entusiasmante e martellante nella bass music di stampo tribale/africano, condito dagli urli suoi e di alcuni pazzi accorsi appositamente per l’evento. Comunque, l’Africa va molto di moda (o in generale la world music).
Arriviamo al venerdì. Mai importante come quest’anno: l’apertura al Lingotto spetta, infatti, al Maestro Franco Battiato. Dobbiamo essere sinceri: il suo Joe Patti’s Experimental Group non è un disco che ci ha colpiti particolarmente, ma il concerto ha una portata storica. È l’affermazione di ciò che Club to Club è e sarà da ora in avanti, nelle intenzioni della propria direzione e nelle nostre sincere speranze. Il 70enne avanguardista italiano inizia con le sue sperimentazioni, una miscela fra inediti e vecchi frammenti degli anni ’70: capiamo subito di trovarci di fronte a qualcosa di storico, ma l’emozione vera arriva solo alla fine: “E ti vengo a cercare”, “No Time No Space” e gli encore “Propiedad Prohibida” e “Voglio vederti danzare” non solo arrivano dritte al cuore, ma fanno letteralmente impazzire il pubblico, fra cui scorgiamo anche qualcuno in avanti con l’età.
Quello che succederà dopo, apre un capitolo parallelo di questa serata: Evian Christ non solo ci spettina (e ci fa sentire il pezzo prodotto con Kanye West), ma presenta dei visual spettacolari, con una serie di pannelli posti alle sue spalle. Sarà una delle rare incursioni delle arti visive al Lingotto, il cui allestimento è stato improntato al minimalismo (che apprezziamo, ma un megaschermo sarebbe stato utile in certi momenti). Qualche problema tecnico e una scarsa verve live hanno minato, invece, l’esibizione dei Jungle, di scarsa durata e abbastanza scialba. Peccato perché il disco è molto bello. Ci spostiamo in Sala Rossa, curata da Red Bull Music Academy, per goderci parte dell’esibizione dei Ninos du Brasil, punk come amano definirsi e festosi come sempre. Li conosciamo molto bene e li sacrifichiamo, in attesa di Kelela. La cantante statunitense è capace di conquistare il pubblico grazie a una voce meravigliosa e una presenza scenica invidiabile: un’esibizione pulita, fin troppo probabilmente, ma che lascia intravedere ottime potenzialità.
Lasciamo la sala per uno dei concerti più belli di tutto il Club to Club: quello di Caribou e la sua band live. Un’alternanza spettacolare e magistralmente eseguita di pezzi nuovi e hit del passato, conclusa con una ‘Sun’ esplosiva, martellante, ballata con energia da tutto il Padiglione 1. Incredibile.
Da questo momento in poi, con l’amaro in bocca di essersi persi una Jessy Lanza interessante, comincia la nostra peregrinazione fra Padiglione e Sala Rossa (per la quale è necessario un sistema di areazione più efficiente): Ben UFO b2b Ron Morelli è una formula vincente, una sassata dietro l’altra minano la nostra voglia di ascoltare Pantha du Prince. Errore (sfortunatamente non commesso), perché il tedesco non è per nulla compassato e sta realizzando uno dei live elettronici più belli e potenti di tutto il festival, a detta di molti l’act migliore dell’edizione.
Cerchiamo di resistere per altri due show, ma andiamo a dormire ugualmente felici, grazie a una delle sorprese più piacevoli di questo Club to Club: Talaboman. Il duo formato da John Talabot e Axel Boman possedeva già il marchio di qualità sulla fiducia, ma mai ci saremmo aspettati di essere martellati dalla loro tech-house di matrice balearica. Il fisico desiste e ci perdiamo Millie&Andrea, l’altra joint venture di giornata, fra Andy Stott e Miles Whittaker.
Torniamo a casa distrutti, ma decisamente felici.
Sabato 8 la nostra mente è principalmente rivolta all’esibizione delle 18: al Symposium si esibisce Fatima con la Eglo Live Band. Non nascondiamo la nostra passione per la magnifica voce della cantante svedese, residente in Inghilterra: il suo soul/jazz si colloca perfettamente nell’intimità dell’AC Hotel, anche se la cornice di pubblico non è certamente massiccia. Meglio così, perché l’intesa e la passione profusa da ambo le parti saranno ai massimi livelli. Fatima e i quattro membri della band eseguono magistralmente tutto il suo ‘Yellow Memories’, un’ora di concerto di livello altissimo, con un grande trasporto emotivo e un sorriso generale nell’aria. Giusto il tempo di una pizza lì nei paraggi, pronti per l’ultima fatica del nostro festival.
Quando entriamo, c’è Clark che sta già caricando la folla: sono solo le 22.30, ma a sentire i bpm potremmo essere molto più avanti nella scaletta. La sua esibizione non ci dispiace, ma in Sala Rossa stanno iniziando gli unici rappresentanti del genere disco in tutto il cartellone del festival: gli italianissimi Tiger&Woods. Non abbiamo parole per descrivere la felicità che il duo tricolore è stato capace di diffondere in tutti i presenti, ma possiamo dirvi che era tangibile e che l’ora in loro compagnia è stata decisamente insufficiente. Uno dei nostri migliori momenti di tutto il festival, per il connubio perfetto fra divertimento e qualità. Peccato che non siano stati coinvolti altri rappresentanti di questo genere che amiamo alla follia.
Dopo di loro, in Sala Rossa avremo Lorenzo Senni e Vaghe Stelle: una ottima presenza italiana, uno dei marchi di fabbrica del festival, che speriamo diventi sempre più massiccia. Non abbiamo apprezzato molto la loro collocazione temporale, specialmente quella di Senni, decisamente mentale come approccio e forse poco coerente nell’economia generale della scaletta, ma capace di attivare ineditamente le nostre sinapsi.
Il torinese Vaghe Stelle, invece, si è distinto per una scelta sicuramente intelligente del proprio registro espressivo, votato al dance floor, visto anche l’orario di esibizione (le 3). Abbiamo apprezzato.
Chi abbiamo apprezzato meno, invece, sono stati i Future Brown, forse l’unico vero act davvero fuoriluogo: il progetto non solo non ci convince a livello artistico (non porta nulla di nuovo alla trap/hip hop), ma live è decisamente poco performante. Sorprendente, appunto, questo Club to Club perché sono i nomi piccoli ad averci colpiti maggiormente: per esempio, l’headliner numero 1, SBTRKT, è stato sicuramente protagonista di un live ben suonato, finalmente non minato da problemi tecnici (che lo hanno afflitto in altre occasioni), ma ‘monco’ di una delle caratteristiche fondamentali, i vocals live. La sua musica è bellissima, specialmente nei dischi, ma live non sempre capace di entusiasmare. Non sono comunque mancati momenti di euforia generale e godimento uditivo, ma pensiamo che ci siano margini di miglioramento per l’inglese mascherato più chiacchierato del momento. Da questo momento in poi la qualità è decisamente decollata: Apparat è riuscito a far intravedere qualcosa, senza però proporre nulla di particolarmente sensazionale. Sono stati gli altri due berlinesi, presenti per celebrare i 25 anni dalla caduta del Muro, a fomentare la piazza: Recondite prima, con un bel live di sanissima techno teutonica, e Marcell Dettmann, capace di dare il colpo di grazia a un soundsystem in decisa sofferenza. La sua chiusura è stata caratterizzata da un incedere di techno molto terrena, qualità altissima, ma forse meno coraggiosa e poetica rispetto ai James Holden e Ben UFO che avevano chiuso gli anni precedenti.
Nel frattempo, siamo riusciti a fotografare e goderci un Vessel seminudo, tornato a casa con un polso rotto, che ha rischiato di far saltare le giunture della Sala Rossa a colpi di bass music. Pazzo e meraviglioso.
Così è finito il nostro Club to Club, che il giorno dopo sarebbe continuato con Tanz Salvarium, un mercatino di ispirazione tedesca, e lo showcase della label italiana Gang of Ducks, di cui abbiamo sentito ottime cose.
Un festival organizzato bene, che è riuscito ancora a volta a crescere, nonostante la qualità altissima, capace di sorprendere con le scelte meno scontate e che, speriamo, continuerà a osare sempre di più. Perché quando Sergio Ricciardone & co. lo hanno fatto, non solo ci hanno sorpresi, ma ci hanno regalato alcune chiavi di lettura per il futuro. Dateci sempre più italiani, dateci sempre più “sconosciuti”, dateci sempre più poesia. Poche note a margine per l’anno prossimo: la Sala Rossa meriterebbe un restyling per migliorarne la vivibilità; cercheremmo di riproporre quella formula di “club to club” che ha dato origine a tutto, fondendola con le ottime intuizioni logistiche di quest’anno (su tutte il polo principale stabilito al Lingotto); manterremmo l’approccio minimal e sobrio, implementandolo leggermente con alcuni servizi (su tutti: un’area ‘relax’ per tutti, un megaschermo, qualche ritocco al soundsystem e dei cambi-palco un po’ più veloci).
Per il resto, la strada imboccata è quella giusta. Ed è molto luminosa.