C’erano grandi aspettative intorno a questa edizione di Club to Club. Diversi i motivi: vuoi un’edizione, quella precedente, bella sotto il profilo artistico, ma perfettibile sotto vari aspetti tecnici dopo il grande salto verso la fiera Lingotto (che ha certificato un distanziamento da quell’anima “club to club” che ne ha fatto nome e identità per tanti anni); vuoi perché trattasi dell’edizione 15, che lo mette oggi fra i festival musicali più longevi (specie nel campo elettronico, e specie in Italia dove certe storie durano pochi anni prima di finire nell’oblio); vuoi perché la concorrenza è aumentata (meno male) e il livello generale si è alzato (bene).
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Vi anticipiamo che il saldo di questa edizione è positivo, senza alcun dubbio. Sebbene gli organizzatori abbiano rischiato, col battage alimentato nei mesi precedenti, di creare un hype anche pericoloso, dobbiamo sicuramente dargli il merito di aver costruito un’esperienza generale assolutamente piacevole e di grande spessore qualitativo.
Partiamo con ordine.
Il semaforo verde lo ha dato Apparat. Posate le nostre valigie nelle camere di ABSOLUT Symposium, ancora una volta headquarter dell’evento, ancora una volta ricolmo di sorprese che vi racconteremo dopo, ci siamo diretti alla volta del Conservatorio “Giuseppe Verdi”, una gemma incastonata nel centro di Torino. Innanzitutto va fatto un plauso per la scelta della location: bellissima, coerente e contemporanea. Arriviamo con aspettative sicuramente alte verso l’artista tedesco, pur non essendone appassionati (si tratta, del resto, di uno di quei pochi artisti universali, anche grazie alla sua eclitticità). Lo spettacolo vede Sascha Ringal centro, accompagnato da un’ensemble di musicisti e due artisti che si occupano dei visual live (assolutamente strepitosi): l’inizio non è propriamente dei più entusiasmanti (si tratta di pezzi da colonna sonora, anche un po’ statici), ma il concerto si dimostra un crescendo, anche perché si comincia ad esplorare il repertorio più pop dell’artista, quello sicuramente più apprezzato ed accessibile. Alla fine di tutto, bello.
Il giorno dopo è il momento di uno dei nostri artisti più attesi: Floating Points. Sam Sheperd è un artista veramente speciale: dato il suo background musicale classico, troviamo davvero sensazionali le sue doti da dj e la sua capacità di essere un producer che sa spaziare da tracce più accessibili e groovy a sonorità più ricercate. L’ultimo disco, ‘Elaenia’, che è uscito proprio in contemporanea al suo live di Torino, scrive un importante capitolo sul lato di ricerca, trattandosi di un racconto onirico a cavallo fra classica e improvvisazioni jazz in cui l’elettronica non è protagonista e viene affiancata da archi e fiati. E così si presenta al Carignano di Torino, teatro anch’esso bellissimo (ma con un’acustica, ahimè, complicata e non sempre adeguata ai live elettronici). Tanti musicisti sul palco, dei (un) visual sciatto (in controtendenza alle sperimentazioni del suo videoclip “Silhouettes”), poca energia. Per noi una cocente delusione: l’impressione è di aver assistito ad un concerto poco speciale, che non si discosta troppo dal disco ascoltato il giorno prima in treno e che non sfrutta pienamente una così nutrita schiera di musicisti. Forse Sam non è ancora pronto, forse ha solo bisogno di rodarsi (era la seconda data del tour), ma crediamo che in generale debba ancora lavorare su questo aspetto, ed è strano pensando la maniacale cura che ripone in qualsiasi suo lavoro.
Sfortunatamente, le forze vengono a mancare e non possiamo raccontarvi il primo giorno al Lingotto, con Mumdance e Novelist seguiti dalle misteriose artiste di PC Music, Sophie e QT, uno di quei fenomeni musicali che ancora fatichiamo a spiegarci e che ci avrebbe fatto piacere conoscere meglio dal vivo.
Arriva venerdì, quello che è d’obbligo considerare il giorno di svolta per C2C. Sold-out da settimane, l’operazione voluta dai promoter di Xplosiva è analoga a quella dell’anno scorso, quando il cerimoniere della notte torinese fu Franco Battiato. Trasformare C2C in un festival sempre più vicino a quell’idea di avanguardia pop che da qualche tempo è diventato quasi un mantra per gli organizzatori. E se c’è un artista che può rappresentare al meglio questa transizione, da quello che è stato un festival colmo di dj set ad una formula che prevede tanti live (con conseguenti cambi palco che ancora gridano vendetta per la loro durata eccessiva), questo è Thom Yorke. Ed è proprio questo il motivo per cui nessuno ha fiatato davanti agli interminabili 50 minuti di cambio palco (dopo un Four Tet abile, ma poco incisivo, complice anche un disco non molto “concertabile”), sebbene l’impianto di visual e l’allestimento (niente di macroscopico, ma curato) fossero qualcosa di inedito sul main stage. Ammettiamo di non impazzire per il genere, ma non possiamo certo ignorare la tensione che ha avvolto l’immenso padiglione del Lingotto. Grande intensità, grande presenza sul palco di Yorke e soci, visual anche qui straordinari (merito di un video-artista di cui segniamo il nome: Tarrik Barri). La transizione è fatta, e non si può più tornare indietro (davvero).
Come non si può più tornare indietro, e siamo felici, sulla scelta doverosa di tagliare la Sala (Sauna) Rossa e di dedicare uno spazio migliore per il palco Red Bull Music Academy, dove – a cavallo con l’esibizione di Thom Yorke – si sta scatenando il nostro idolo Todd Terje, norvegese, che con una doppietta di pezzi incredibile (‘Lanzarote’, ‘Delorean Dynamite’) manda in visibilio un pubblico nutrito e molto bello (tutto il pubblico del festival lo è stato, e siamo felici di dirlo). Dategli il Main Stage.
La Sala Gialla è grossa tre volte rispetto al passato, è sicuramente meno affascinante, ma ha un impianto audio/video di tutto rispetto e un’esperienza nettamente superiore al Main Stage. Anche quest’anno, purtroppo, è stata riposta poca cura nella ricerca di un allestimento e di soluzioni scenografiche di livello per la sala principale. L’audio è migliorato (il sabato ha resistito alle saette di Andy Stott), ma il pubblico rimane alienato, distante. Andrebbe sicuramente migliorato questo aspetto, così come bisognerebbe avere più a cuore i servizi: bagni (imballati), cibo (buono ma con poca varietà), bar (costosi), aree lounge (inesistenti), security (poco attenta). Non smetteremo mai di sottolineare l’importanza di questi aspetti quando parliamo di festival, soprattutto quando i tuoi riferimenti sono oltre i confini italiani.
Il nostro venerdì continua con un altro attesissimo: Jamie xx. Il producer inglese parte subito con il pezzo utilizzato come sample per la sua hit “Loud Places” (che, poi, in un reprise chiuderà il set): “Could Heaven Ever Be Like This” di Idris Muhammad. Già da qui capiamo il mood del suo set: un continuo cross-over fra vintage (di matrice funk) e pezzi più carichi e da dancefloor. Il risultato? Un dj set elegante, divertente, entusiasmante. Jamie xx sa sicuramente come accattivarsi le folle.
Chiude la serata Lorenzo Senni, una scelta che ci fa particolarmente felici per due motivi: Senni è un artista non facile sicuramente, per un padiglione; è italiano. Complimenti per il coraggio, se così vogliamo chiamarlo.
In questo excursus del venerdì, non abbiamo citato altri quattro act a cui abbiamo assistito. Carter Tutti Void: approfondiamo la loro storia con un amico proprio mentre ci stanno conquistante con la loro cassa decisa, ma rassicurante, accompagnata da note di chitarra che riempiono gli ancora ampi spazi del padiglione. Battles: non li aspettavamo, non ci hanno colpiti e l’acustica non era delle migliori. Omar Souleyman: sapevamo di trovarci davanti a qualcosa di “ignorante”, quasi da matrimonio, e ne abbiamo avuto conferma. È un fenomeno, gli vogliamo bene, ma al C2C si gioca la Serie A. Tala: peccato perché da lei ci aspettavamo qualcosa di più, invece l’abbiamo trovata abbastanza acerba e adolescenziale nella sua esibizione. Rimandata.
Archiviato un venerdì di spessore, il giorno dopo ci diamo appuntamento al Symposium.
Il luogo che ABSOLUT ha creato all’interno dell’AC Hotel Lingotto è diventato talmente quotidiano che non riusciremmo a immaginare il festival senza. È bello poter vivere un’esperienza rilassata, fare quattro chiacchiere e un drink con amici e artisti, confrontarsi (piacevole farsi raccontare l’esperienza newyorkese da Nicolò Fortuni dei Ninos du Brasil, anche loro presenti al festival col loro show punk/world/elettronico), assistere a diversi talk (bello e interessante quello coi creatori del videoclip di ‘Silhouettes’), e farsi un giro nelle diverse room allestite per l’occasione. Anche quest’anno quella che ha conquistato i nostri favori è stata la Jam Room: se l’anno scorso avevamo potuto provare mandolino e ukulele, quest’anno abbiamo creato improbabili pattern sonori con synth, drum machine e un meraviglioso esemplare moderno di theremin. Nella Fashion Room è stato dato spazio a otto brand di moda torinesi, purtroppo principalmente orientati alla moda femminile. Non possiamo fare a meno, però, di denotarne la qualità e confortarci nel vedere tanti bei brand concentrati in una città non troppo estesa.
Nella Elektrik Room è stata presentata la nuova bottiglia a edizione limitata ‘Elektrik’, scintillantissima nella sua colorazione argento o blu elettrico. Un cocktail esplosivo (avete presente quelle caramelle che scoppiettano in bocca? Il bordo ne era tempestato) ha allietato la nostra permanenza.
Immancabile la giostra in giardino, affiancata da un robot/bartender affascinante (ma che ci spaventa un po’, come concetto).
In serata è di nuovo tempo di Lingotto Fiere: il festival è agli sgoccioli, ma ha ancora tante cartucce da sparare. Non c’è il sold out, ma capiamo che c’è un numero forse anche superiore di persone rispetto al giorno prima (12mila, si dice). Una scelta condivisibile, che ha preservato la vivibilità degli spazi per una serata (quella del venerdì) che meritava una cornice di pubblico selezionata.
Quella del sabato è una serata con qualche nome altisonante in meno, ma che riserva qualità e che non soffre la concorrenza col giorno prima.
Lo stage RBMA offre due act interessantissimi e dalla matrice più pop/suonata: Jack Garratt, giovane cantautore britannico, one man band con chitarra, batteria elettronica e una bella dose di ironia. Il suo repertorio è molto orecchiabile e in alcuni tratti, forse anche somatici, ricorda Chet Faker, senza però avere quell’anima blues e malinconica (e ancora la profondità) dell’artista australiano. Per noi, e per il pubblico, è promosso a pieni voti.
Segue uno degli artisti più attesi per noi di Polkadot: LA Priest, che in sostanza è il cantante (e forse maggiore ispiratore) di quel gruppo rivoluzionario, che non rivoluzionò nulla (perché sparì dopo il primo e unico album), che risponde al nome Late of The Pier. Ed in effetti il dejavù non manca in qualche occasione. Ci sono problemi di audio e l’artista non ci va nemmeno leggero coi tecnici, ma questo non fa altro che tirare fuori il suo carattere peperino (e un po’ da rockstar) ed un’esibizione divertente, psichedelica, ballabile sul finale.
Giusto in tempo per non perdersi Oneothrix Point Never: di questo artista, che ha collegamenti forti con la scena artistica contemporanea USA, si è sempre parlato un gran bene. Sfortunatamente il suo live soffre molto la dimensione fieristica dello stage, risultando distante dal pubblico, disomogeneo nel suono, inconcludente e peraltro supportato da dei visual senza né capo né coda. Forse avrebbe reso di più in un ambiente più raccolto.
A lui seguirà, dopo anni di onorato servizio in Sauna Rossa, Andy Stott, apprezzatissimo distributore di bassi, che ci fa credere ad un imminente collasso dell’impianto e del padiglione, che fortunatamente non accadranno mai. Sensazionale (anche se non suona pezzi molto belli del suo repertorio).
In realtà, però, l’attesa è tutta per Nicolas Jaar, uno dei più riconosciuti geni dell’elettronica. Non nascondiamo di adorare il suo lavoro, sempre misurato, elegante, intellettuale. E il dj set che propone va esattamente in questa direzione: trenta, quaranta minuti privi di cassa, un viaggio mentale che non tutti forse hanno colto, complice anche una invasione di technofili abituati ad altro. Spazio anche per digressioni funk/disco, cassa in 4/4 liberatoria senza però mai perdere la propria identità. Non facile, non ballabile, ma vero e proprio cibo per la mente.
Come è cibo per la mente, ma soprattutto per la parte più carnale Jeff Mills, davanti al quale possiamo solo inchinarci. Drittissimo, per due ore ha mixato techno veloce, imprevedibile che ha messo a dura prova il nostro fisico.
Che poi è il motivo per cui abbiamo deciso di concederci alla chiusura della Sala Gialla, dove Powell e Not Waving (appena entrato nell’etichetta Diagonal, di cui Powell è il fondatore) ci hanno regalato una piacevole sorpresa, un dj set potente e trascinante. Trascinante da toglierci le ultime energie in corpo fino ad impedirci di assistere decentemente al live di Shackleton, una scelta in controtendenza rispetto all’anno scorso, dove la techno berlinese di Dettmann aveva posto il capitolo fine al festival. Ancora, però, ci manca la bellissima chiusura di James Holden di qualche anno fa, psichedelica e trasognante.
Non aggiungiamo molto per ciò che concerne la domenica, col bloc party danese in San Salvario. Bello invadere la città a colpi di elettronica. Una città a cui dobbiamo fare un applauso per la grande disponibilità e propensione ad ospitare eventi di questo genere.
Club to Club, secondo la nostra visione, è stato questo. Direzione artistica internazionale, qualità degli act alta, esperienza complessiva ottima, che potrà sicuramente diventare superiore.
Saluti all’anno prossimo!
Photo credits: Matteo Bosonetto, Andrea Macchia