Astrid Luglio è una giovane designer napoletana, di base a Milano, che ci ha incuriositi per la sua predilezione per la progettazione attenta alla multisensorialità. La maggior parte dei suoi progetti riguarda il tema del cibo e, come ci racconterà nel corso dell’intervista, la sua non è una scelta assolutamente casuale, ma è legata anche al suo processo creativo.
Partiamo dal tuo ultimo progetto: gli oggetti in vetro realizzati per The Box. Ci racconti com’è nato il progetto e perché hai deciso di realizzare questi oggetti?
Il progetto Disordine era nato da una ricerca su come l’allestimento della tavola influenzi il nostro appetito; ciò che mi interessa indagare è come la dimensione degli oggetti e la scenografia della tavola può essere influenzata dalle forme con cui l’utente può interagire.
Magari ribaltando le proporzioni, mettendo i cibi su dei contenitori sopraelevati, enormi o minuscoli, e poi poter cambiare di volta in volta la combinazione. Il set forma un totem al centro della tavola e poi puoi creare tu il tuo disordine, reinterpretandolo in diverse configurazioni, in base al momento e alla funzione che attribuisci a ogni singolo oggetto. Gli oggetti sono un po’ ibridi: ci sono elementi che potrebbero essere bottiglie, porta-candele, vasi, piatti; dipende dalla tua interpretazione.
Ho giocato su delle geometrie abbastanza semplici, facendo un gioco di composizioni, osservando e sperimentando delle combinazioni sempre differenti.
Lo hai testato con qualcuno?
Purtroppo sempre in un ambito ristretto; mi piacerebbe preparare un pranzo/cena con un numero più ampio di persone. Già con un numero ristretto di commensali ho avuto modo di apprezzare interpretazioni che non avevo immaginato.
Il tuo lavoro è spesso legato al tema del cibo. Qual è la tua visione su questo tema, mai così attuale e discusso, e come interpreti il tuo ruolo di designer alla luce di questo?
Il cibo è un tema attuale praticamente da quando esiste l’uomo. Non passerà mai di moda. È uno di quei campi che non esaurirà mai le proprie risorse e ci saranno sempre nuovi aspetti da indagare. Forse il cibo per me è quasi un pretesto per progettare, visto che trovo difficile parlare oggi di design del prodotto. Mi piace poter partire da un ambito più specifico e delineare quindi una ricerca, partendo da riti della tavola sia attuali che antichi, cibi, abitudini, gestualità. La tavola è indagata dal Paleolitico, però è proprio questo aspetto che lo rende interessante.
Le Camere Olfattive, un altro mio progetto, mi ha permesso di focalizzarmi su un aspetto e su un senso spesso dimenticati. Quindi la mia progettazione tende sempre ad essere finalizzata alla creazione di esperienze.
Qual è il tuo pubblico di riferimento?
Non ero partita pensando di rivolgermi ad un tipo di ristorazione o target elevati. Mi piace partire dal target più ampio possibile, dal quotidiano, anche se ultimamente mi è capitato di confrontarmi con chef importanti e apprezzo sempre quel tipo di riscontro. Anzi, quello è tutto un altro mondo che si apre.
Per esempio, Camere Olfattive nasce lavorando in collaborazione con il Consorzio di
Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia. Quindi il progetto può partire dai produttori, dai ristoratori o dagli utenti curiosi di sperimentare.
Camere Olfattive si lega anche al progetto che hai portato alla Milano Design Week con Ilaria Bianchi, Agustina Bottoni e Sara Ricciardi: Fenoména, un progetto che si focalizzava sulle esperienze sensoriali dell’utente.
Anche questo se vuoi è un tema caldo oggi: la tecnologia ci permette di creare mondi ed esperienze sempre più globali, ma allo stesso tempo ci allontana dai sensi per come li abbiamo conosciuti.
Ci racconti il progetto e cosa ne pensi sul ruolo della tecnologia nel tuo lavoro di designer e nella vita di tutti i giorni?
Fino ad ora ho lavorato con metodi low-tech. Ho sempre cercato di sfruttare qualcosa di meccanico piuttosto che di elettronico. Sia per una mia predilezione personale e un po’ per un mio limite, sia perché quello che ha senso fare oggi in Italia è lavorare col materiale, con l’artigiano. Ho sempre lavorato in collaborazione con artigiani, perché abbiamo capacità enormi in Italia che credo vadano approfondite.
La mia impressione è che l’aspetto tecnologico possa essere sviluppato ovunque, mentre finché sono qui in Italia mi piace andare in soffieria, dal marmista o dal fabbro e riuscire ancora a sfruttare le tecniche autentiche artigianali. Credo nella preziosità del manufatto artigianale e del made in Italy.
Anche per questo motivo, lavoro su serie limitate. Non è facile approcciarsi ad aziende grosse e fare il salto verso una produzione di tipo industriale. Allo stato attuale mi muovo fra autoproduzioni e produzioni limitate. A volte capita di approcciarsi ad aziende ed è interessante carpirne le dinamiche e le possibilità. Purtroppo c’è ancora poca richiesta in Italia.
E forse anche il pubblico di oggi cerca prodotti unici…
Sì, anche se è un bel rischio per noi designer, soprattutto a livello economico. In più devi occuparti di tutti gli aspetti e questo complica le cose.
Il tema della tecnologia ci permette di allacciarci ad un progetto, Bread Stamp, che riporta una vecchia tradizione, utilizzando però strumenti moderni come la CNC e la stampa 3D per la realizzazione degli stampi. Come sei arrivata a lavorare su un oggetto “ancestrale” (pre-design industriale) e qual è la tua idea sul recupero di questo tipo di oggetti “spontanei”?
Da qualche anno collaboro con lo studio TourDeFork con il quale ho avuto la possibilità diversi progetti legati al cibo.
Credo che alcune macchine per la prototipazione rapida siano sopravvalutate, ma sono decisamente utili per fare prototipazione, soprattutto in questa nuova dimensione del designer che auto-produce.
Il progetto dei timbri del pane è stato sviluppato a partire da una ricerca molto approfondita che mirava a recuperare il rito dei forni pubblici, luoghi dove le persone cuocevano la propria pagnotta e la contrassegnavano con lo stemma familiare.
I timbri sono oggetti scultorei, un regalo che si tramandava di generazione in generazione; quando chiedevi la mano ad una ragazza, le regalavi il timbro con le iniziali della famiglia.
Lavorando con OpenDot, un fablab di Milano, abbiamo realizzato i timbri del pane usando stampa 3D per stampare le placchette e CNC per il manico; ora stiamo lavorando su un manico in ceramica, che è più facile da portare avanti ed ha un aspetto materico importante.
Ci viene in mente anche il progetto The Future of DIY. Ce lo racconti?
Anche questo è un progetto sviluppato con TourDeFork, per il mag CasaFacile. L’obiettivo era sdoganare le tecnologie del making, inventandoci per ogni uscita mensile un progetto diverso che approfondisse una delle tecnologie dandogli un approccio più friendly e mostrando che non è così complesso utilizzare queste macchine. Casa Facile ha poi messo a disposizione i disegni 3D sul sito per il download così che chiunque potesse stampare gli oggetti.
Inizialmente abbiamo recuperato i vuoti di bottiglia e con degli inserti stampati in 3D gli abbiamo dato nuove funzioni, come alzatine e porta-candele. Con il taglio laser abbiamo realaizzato i Foodie Rings, anellini in metacrilato da decorare con il cibo. Poi la CNC per i timbri del pane.
Ora guardiamo alla tua città adottiva: Milano. Hai vissuto la città durante il periodo di Expo. Cosa ne pensi delle trasformazioni in atto e come immagini il futuro di questa città? Che tipo di impatto vorresti lasciare?
Ho scelto di rimanere a Milano, appena tornata da Melbourne dove ero stata un anno. Ho vissuto la Milano dell’Expo, davvero radiosa e in movimento. Adesso c’è un momento di assestamento e sono un po’ delusa dalla lentezza con cui Milano si approccia certi cambiamenti. Per esempio, siamo tutti freelance e ci sono pochi posti dedicati a noi, o in alcuni addirittura ti odiano. Il mio auspicio è che nascano più luoghi di collaborazione vera, non i co-working fighissimi dai
prezzi esorbitanti. Penso a laboratori come quelli del Nord Europa, dove anche i giovani designer riescono a ritagliarsi i propri spazi lavorativi a prezzi accessibili. I fab lab ci stanno arrivando e OpenDot è abbastanza avanti da questo punto di vista.
Milano, insomma, è un po’ difficile sull’aspetto dello “sharing” anche se è un tema alla moda.
È difficile capire che impatto voglio lasciare, perché sono ancora agli inizi. Sicuramente è emozionante sapere che il tuo progetto è entrato in qualche casa ed ha fatto la differenza. Quando ho venduto alcuni oggetti come le lampade che profumano o le camere olfattive ed ho avuto dei riscontri mi sono emozionata e spero che questa emozione perduri.
Che ruolo può svolgere il cibo nel futuro di questa città?
Spero che il cibo si riprenda quei momenti di condivisione, la mia progettazione spesso parte attorno ad un tavolo, con gli amici. Spero ci siano sempre più spazi dedicati a questo in modo vero: penso alle cucine condivise, ma anche a luoghi dove c’è attenzione al cibo non come moda di passaggio, ma come luogo di informazione. Bisognerebbe fare educazione alimentare a scuola!
Quali sono i designer e i progetti che t’ispirano?
Mi chiedo spesso quali siano le mie ispirazioni. Mi attira molto il personaggio di Sottsass; di recente sono stata alla mostra in Triennale e ho acquistato il libro su suoi vetri di Murano. Ammiro il suo approccio sognante e iperdecorativo, è molto diverso da come concepisco i miei
progetti e perciò mi attira tanto. Mi è piaciuto molto leggere i suoi scritti.
Fra le ispirazioni attuali, direi il collettivo delle The Ladies’ Room (Sara Ricciardi, Agustina Bottoni, Ilaria Bianchi) con le quali ho collaborato alla scorsa Design Week. In una realtà molto individualista come quella del freelance dove vuoi nascondere le tue idee e i tuoi fornitori, credo sia fondamentale darsi forza l’un l’altra anche per accrescere la creatività. Mi piace come lavorano, mi piace che siano completamente diverse da me.
Poi Stefano e Claudia di TourDeFork, coi quali collaboro tuttora e che mi hanno insegnato e mʼinsegnano tanto ogni giorno.
Quali i libri e i film che, in qualche modo, hanno dato forma al tuo immaginario?
Ho letto da poco “Il progetto della Tavola”, un libro interessantissimo sulla costruzione dello spazio conviviale, nel quale l’allestimento della tavola viene analizzato in ogni sua forma, come una vera e proprio composizione architettonica, con i suoi spazi privati, pubblici, i pieni, vuoi le forme, i materiali e colori. Mi ha ispirato molto e ho ci ho ritrovato molte delle ricerche che avevo effettuato in questi anni.
Un altro libro – difficilissimo, ho impiegato due anni per leggerlo! – è “L’uomo artigiano” di Sennet, sociologo americano. Parla dell’evoluzione del ruolo dell’artigiano e di come facendo ti confronti con il tuo fallimento costante, ma anche con una soddisfazione.
Un altro libro ancora è Fattobene, rassegna di oggetti italiani nati nel secondo dopoguerra che resistono negli anni e vengono ancora comprati senza che sia cambiato nulla. Alla base c’è una pulizia progettuale e un’intelligenza nella comunicazione che li ha resi immortali.
Che progetti vedi nel futuro?
Non voglio che il cibo sia un limite. Da Camere Olfattive è nato un progetto sul profumo, che affronta quindi il tema del benessere. Un mondo molto interessante da scoprire. Non mi pongo limiti, ogni nuovo prodotto dev’essere una ricerca che mi stimola culturalmente e progettualmente.
M’interessa anche l’ambito legato all’hospitality/alberghi, questo nuovo trend sulla casa/albergo, il modo di vivere certi spazi, perché penso che ci siano delle lacune progettuali dal punto di vista dell’ospitalità. La direzione in cui si sta muovendo il mondo vede sempre più Airbnb e boutique hotel e sempre meno hotel classici. È anche il tema di un nuovo progetto che stiamo sviluppando. Il cibo è una parte, ma ci sono molti altri aspetti dell’accoglienza da curare.