Ritorna La nuova scuola italiana, la nostra rubrica che ricerca le nuove leve del design italiano. Dopo Astrid Luglio e il suo product design attento ai sensi, questa è la volta di un’altra designer, anche lei napoletana (ma è un solo un caso), che si distingue per la sua idea di moda che s’ispira al passato proiettandolo con ironia nel presente: Giorgia Fiore.
Classe 1989, Giorgia oggi vive a Milano, dove si è trasferita anni fa per partecipare al talent Project Runway Italia (è arrivata in finale). Uno dei suoi tratti distintivi, oltre ad un’autentica e proverbiale veracità napoletana, è l’amore per le stampe e i pattern. In particolare quello delle bambole, ispirato all’Ospedale delle Bambole di Napoli e mixato con i lavori pulp della fotografa Mariel Clayton, che ha trasformato Barbie in un’assassina.
Le stampe che raccontano storie filtrate attraverso la personalità elegante e leggera di Giorgia sono sicuramente la cifra del suo lavoro. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con lei per approfondire.
Dici di essere più brava ad esprimerti a immagini che a parole.
Secondo me è una cosa caratteriale, e non ha a che fare con la mia infanzia, perché nella mia famiglia nessuno ha mai avuto a che fare con l’arte. O almeno quella più vicina ai giorni nostri. È importante essere circondati da cose belle: l’estetica è un’educazione e crescere circondati dalla bellezza ti aiuta a riconoscere più facilmente il bello. In realtà quand’ero piccola ero più brava a scrivere, poi ho fatto ingegneria per tre anni e non ho mai scritto tanto.
Ingegneria? Non l’avremmo mai detto.
Ho fatto ingegneria gestionale nel ramo civile. Sai, era un mio sogno da bambina, insieme ad essere militare di fanteria. Poi ho capito che quest’ultimo era un po’ impegnativo. Ho studiato un po’ come se fosse un obbligo, ma mi mancano ancora degli esami per finire. Ho deciso che avrei seguito la mia strada, quella che a 16 anni avevo capito sarebbe stata davvero la mia strada. Provai a dire ai miei che volevo studiare alla Parsons di New York, ma non fui molto persuasiva. Tutt’oggi ho difficoltà a spiegare cosa faccio, anche perché è difficile definirsi dentro una professione unica. Oggi devo fare tutto ciò che è utile per la mia professione.
Quindi, com’è composta la tua giornata?
Mi sveglio, preparo un caffè e vado in palestra. Tornata dalla palestra, apro il mio meraviglioso computer, come un po’ tutti. Rispondo alle email, guardo immagini, disegno, poi esco, poi ho un appuntamento. È una giornata molto disordinata.
Al di là dell’aspetto estetico ci piace la tua capacità di raccontare pezzi di immaginario, filtrati attraverso il tuo punto di vista. Come nascono le tue storie?
Tendenzialmente ognuno racconta ciò che sa. Italian Sunday è ispirata a casa di mio nonno dove passavo tutti i pranzi domenicali. Mio nonno era un amante del barocco napoletano: carte da parati in tessuto e colonne dorate. Da quella carta da parati che ho fotografato è nato un pattern con colori diversi e con la mia faccia. O meglio, la faccia di come m’immagino di essere, che non è come sono realmente. Una cosa da psicanalisi. In generale, comunque, ci metto poco a “visualizzare” una stampa nella mia mente. Poi magari per realizzarla ci metto tantissimo tempo.
Tornando ad Italian Sunday, ho voluto celebrare il mio amore per i tessuti classici facendoli però sembrare altro, come nel caso dei rombi che diventano aquiloni. Prossimamente vorrei mettermi alla prova con l’animalieur.
Nei tuoi capi c’è molta ironia: cosa vuol dire per te questa parola? E come la declini nei tuoi capi?
So che potrò sembrare presuntuosa, ma non c’è ironia senza intelligenza e consapevolezza. L’ironia può diventare facilmente cattiveria se non viene compresa. Per me l’ironia è sapersi prendere in giro da soli o vedere i lati divertenti delle cose. Non sono sicura comunque che la mia ironia arrivi a tutti: qualcuno potrebbe leggere la mia donna come una “superficialotta”. L’ironia è qualcosa che ci si può permettere: io disegno per me stessa e quindi posso esprimere ciò che sono. È come la differenza fra il tema libero e il saggio breve a scuola. Ovviamente quando lavori da sola, sbagli anche molto di più.
Quanto c’è di Milano e quanto di Napoli nei tuoi lavori?
Mi sono trasferita a Milano per partecipare a Project Runway Italia. Devo dire che comunque ovunque io vada, mi adatto abbastanza facilmente ma non lego tantissimo con la città.
Nel mio lavoro c’è solo Napoli. C’è l’arte di arrangiarsi, del fare le cose da sola da quando ho fatto la mia prima collezione a 23 anni. C’è il gusto napoletano: i napoletani sono molto attenti, non solo all’abbigliamento. Personalmente da piccola ero talmente maniacale che tutti i miei oggetti dovevano essere per forza belli.
Quali sono i tuoi luoghi del cuore nelle due città?
A Milano il parco vicino casa perché il mio cervello si spegne, uno dei rari momenti. Non ho luoghi del cuore particolari: forse i ristoranti perché mi piace mangiare. Una volta ho messo i gamberetti in una delle mie stampe, ma non posso mangiarli!
Per chiudere: ci consigli qualche libro da leggere e qualche film da vedere?
Intanto comprate gli Adelphi, perché sono tutti belli, a partire dal profumo della carta. Vi consiglio “La Camera Azzurra” di Georges Simenon e “La Follia” di Patrick McGrath.
Come film, che è anche libro, “La Versione di Barney”. Poi un documentario che mi ha ispirato: “Diana Vreeeland: L’Imperatrice della Moda”. Lei – direttrice storica di Vogue – aveva un’identità.