Abbiamo incontriamo Daniele Antezza e Giovanni Conti, i nomi dietro al progetto Dadub, di passaggio in Italia. Avremmo dovuto conoscerli durante una trasferta a Berlino, ma il caso vuole che proprio in quella settimana fossero in Italia, riusciamo quindi a catturarli a poche ore dalla partenza e insieme ci parleranno del loro modo di fare musica.
Più che un’intervista si è trattato di condividere delle esperienze con questi due fantastici musicisti, tra pensieri profondi, technicalities e spazio per la critica politica. Daniele e Giovanni sanno esattamente cosa voglio dalla loro musica e pesano ogni parola così come fanno con i suoni che creano.
I Dadub nascono pochi anni fa parallelamente alla label Stroboscopic Artefacts, per cui da poco hanno pubblicato l’album You Are Eternity, più che una meta un nuovo punto di partenza, andato in sold out in pochissimo tempo e ora in ristampa. Della loro musica colpisce l’assoluta concretezza e la capacità di immedesimare l’ascoltatore in un universo sonoro denso e altamente percussivo.
Mentre leggete vi consigliamo di ascoltarvi il mix di You Are Eternity.
Ciao ragazzi, è un piacere immenso conoscervi! Prima di arrivare al contenuto mi permetterete una domanda di rito. Per capirci, qual è il vostro background, quando vi siete incontrati e se questa è stata la vostra prima esperienza musicale o se arrivate da altri ambienti sonori.
Giovanni. Io vengo dalla Toscana e ho studiato all’Università di Siena. Qui ho iniziato a suonare musica elettronica con Ettore Bianconi, che adesso suona con i Baustelle. Eravamo un trio, Ettore ed io con il laptop e un dj che faceva scratch ed effetti. Lì ho iniziato a scoprire che fare musica elettronica insieme ad altre persone ti da la possibilità di non rimanere chiuso nell’autismo in cui si rischia di cadere quando si fa musica al computer da soli, e di sfruttare un riferimento esterno per capire se le cose che fai funzionano o meno e comunque per arricchire le tue idee.
Dopo l’università ho lavorato a Firenze per una società con cui facevamo installazioni audio. Per quanto riguarda la nostra conoscenza, è una storia strana e lunga e, nonostante anche Daniele studiasse a Siena, non ci siamo mai conosciuti lì ma a Berlino. In sintesi, quando lavoravo a Firenze avevo sviluppato un software per la mia tesi di laurea e il capo della società per cui lavoravo era riuscito a venderlo ad un’altra società rifiutandosi di pagarmi. Abbandonai cosí il progetto e lui si mise a cercare in Italia altre persone che riuscissero a capire come funzionasse questo software.
Un software di audio editing?
Giovanni. Non proprio; si tratta di un software di interazione con l’ambiente circostante: con dei microfoni il software analizza il rumore ambientale – come il traffico, ad esempio – e compone musica in tempo reale che viene diffusa da dei diffusori acustici in luoghi pubblici, e non solo, e forma un layer di suoni rendendo il rumore ambientale meno percepibile, sfruttando il fenomeno del ‘noise masking’. In altre parole, si tratta di musica generata in tempo reale che, mascherando il rumore ambientale, riduce l’impatto negativo del rumore a livello percettivo e fisiologico.
Daniele, invece, dopo aver studiato a Roma in una scuola di musica elettronica, fu contattato dal mio capo per capire se fosse capace di far funzionare il software in questione. Dopo la riunione, Daniele andó a Siena e incontrò un mio amico di Milano che era lì per caso e che, capendo le nostre affinitá di interessi, ci mise in contatto. Cosí, dopo la sua venuta a Berlino, Daniele mi chiamó, ci conoscemmo e prendemmo immediatamente uno studio in affitto per capire se potevamo lavorare insieme ai nostri progetti. Nello stesso periodo Stroboscopic Artefacts era agli albori e Lucy stava cercando qualcuno che sapesse fare mastering, perchè non era soddisfatto del lavoro di mastering delle prime release; iniziammo perció a farlo un poʼ per caso, mentre in parallelo cominciammo a dedicarci anche alla produzione.
Daniele aveva giá realizzato un brano [Blue Whale’s Dub] per in un various artists di Stroboscopic Artefacts, e la prima traccia che abbiamo composto insieme è stata un dj-tool di So The Nothing Grows Stronger, un brano sostanzialmente ambient, supportato subito da Chris Liebing e frutto di una rivisitazione del brano originale prodotto Lucy e Walter Ercolino.
In seguito abbiamo poi realizzato un remix della stessa traccia, andato su vinile, in uno split con Luke Slater. A Lucy piacque molto e ci diede carta bianca sia per il mastering che per le produzioni, e così è partito il nostro progetto.
Daniele, tu invece sei arrivato da Roma.
Daniele. A Roma ci sono stato per frequentare un corso di musica elettronica presso l’IITM nel 2007, anche se la musica è sempre stata parte importante della mia vita come anche per Giovanni: entrambi eravamo batteristi e io ho approfondito anche lo studio percussionistico, studio che continua tutt’ora sui tamburi a cornice.
Per quanto riguarda la musica elettronica, come ascoltatore sono sempre stato un grande appassionato, complice anche tutta una serie dischi che mi erano arrivati durante la mia permanenza a Siena, la cui fonte, in tempi ancora non sospetti, era proprio Giovanni.
Ad un certo punto ho deciso di approfondirne lo studio, un poʼ da solo e un poʼ a Roma, poi gli eventi mi hanno portato a Berlino.
Dadub invece é inizialmente nato come un progetto solista sulla label A Quiet Bump, ma era un progetto abbastanza diverso da quello che facciamo adesso, anche se comunque mantiene intatto il ‘core’ e il senso di piattaforma aperta, concependo il dub piú come approccio di fondo che come scelta estetica di genere. Dadub originariamente era più mid-tempo e ambient oriented, ha poi presto la svolta ‘malata’ che conosciamo tutti grazie allʼincontro con Giovanni.
Berlino comunque vi ha accolti a braccia aperte. Certamente esiste un altro tipo di attenzione e di ascolto da parte del pubblico.
Daniele. É una città ovviamente aperta alle novità e, se hai delle idee valide, ti trovi in una situazione che ti offre molto, ma è stato un lavoro intenso dal primo giorno, e lo é tuttʼora: anche lʼalbum appena prodotto è solo un nuovo punto di partenza.
Giovanni. Diciamo che la musica popolare di Berlino è la techno e questo è già un buon punto di partenza. In realtà 10/15 anni fa veniva valorizzato un aspetto più sperimentale, mentre adesso mi sembra che si sia un po’ fermato quel filone e che si sia affermata una techno più da dancefloor. Il lato sperimentale funziona, però deve essere sempre mediato con una forma che sia comunque proponibile nel dancefloor. Ci sono dei club più piccoli che ti permettono di suonare, ma raggiungere un pubblico più vasto diventa difficile. Non è più come quando c’era Mille Plateaux, i tempi d’oro di Raster Noton o Scape Music. Queste etichette in particolare sono state quelle che mi hanno spinto a fare musica elettronica.
Daniele. Ora, in effetti, sembra ci sia un piccolo ‘misunderstanding’, perchè quel tipo di suono sta diventando estetica canonizzata, anche se, in realtà, quei tipi di suoni erano tali proprio perchè erano frutto di sperimentazione. Spesso accade che una sperimentazione artistica diventi così identitaria da trasformarsi in estetica, con la tendenza a diventare un trend: in pratica quello che sta accadendo oggi. Quando si parla di dub-techno, ad esempio, penso a Basic Channel o Chain Reaction. Per me quella è stata vera sperimentazione, non certo un genere musicale ben definito.
Partiamo dall’attività di mastering, in studio utilizzate molta strumentazione analogica, con l’obiettivo di creare un suono caldo, vivo, magari anche sporco, ma assolutamente reale, piuttosto che un suono pulito, tecnicamente perfetto, ma impalpabile. Tutto questo si percepisce comunque anche nelle vostre produzioni. Quindi, qual è il processo che vi porta a ricreare quell’ideale sonoro e come riuscite a proporlo ai produttori che vi consegnano le loro opere?
Giovanni. Quando fai musica elettronica non hai un riferimento acustico reale, i suoni che noi creiamo non sono generati da oggetti fisici, quindi tutto il discorso di perfezione tecnica diventa relativo, perchè quando si tratta di fare una ripresa acustica di uno strumento reale, lo scopo è di registrarlo e di farlo sentire nel modo più fedele e reale in cui lo strumento è stato registrato. Quando fai elettronica, mancando questo rapporto con la realtà fisica, non hai più questi limiti – che da un lato è un aspetto positivo – però allo stesso tempo non hai più neanche un riferimento che ti permette di capire se ti stai muovendo nella direzione giusta. Quindi devi un po’ reinventarti unʼestetica e un trattamento tecnico del suono generato al computer, che non è più basata su un riferimento oggettivo, ma diventa una cosa in parte soggettiva, diventa una questione di gusto e suggestioni personali, che magari non derivano solo da un discorso musicale, ma possono derivare da un immaginario che viene dal cinema, dalla fotografia o da altri fenomeni esterni. Quello che cerchiamo di fare è di creare attraverso il suono dei mondi, delle sceneggiature. Nelle nostre tracce ci sono degli ambienti e degli attori, delle azioni che accadono e c’è uno stato dʼanimo che viene comunicato da questi elementi in una interazione, un sistema in cui cʼè uno spettatore che osserva lo svolgersi degli eventi.
Il trattamento analogico ci permette di utilizzare strumenti digitali come punto di partenza per poi dare a questa materia una superficie, una texture, un carattere che suona più fisico e ci permette di avvicinarci a suoni che sembrerebbero derivare da un mondo reale. A seconda che stiamo facendo un lavoro di mastering o di produzione, anche se usiamo le stesse attrezzature, equalizzatori e compressori valvolari, il trattamento che facciamo è molto diverso. Quando facciamo un lavoro di mastering, il nostro riferimento oggettivo diventa il pre-master, il mixdown che il produttore ci manda. Quello è il punto di partenza che ci fornisce delle coordinate per capire il bilanciamento di frequenze ottimale, quali sono i rapporti dinamici tra gli elementi che compongono la ritmica e quali sono i rapporti tra la ritmica e gli elementi ambientali intorno alle parti di drums. In questo caso il lavoro è molto più sottile e molto più neutro, quando invece facciamo produzione di nostre tracce siamo molto più liberi di sconvolgere quello che abbiamo fatto al computer.
Agganciandomi a questo ultimo aspetto, sarebbe interessante capire se e in che misura questa consapevolezza del trattamento e del risultato sonoro influenzi la vostra produzione. Rimane solo un punto di riferimento o vi coinvolge più a fondo?
Giovanni. Forse per reazione a questo impegno quotidiano di mastering, quando produciamo la nostra musica ci andiamo con la mano anche più pesante rispetto un normale lavoro di postproduzione, e cerchiamo di rendere i nostri brani i più diversi possibili dalle produzioni standard sulle quali lavoriamo come mastering. A livello tecnico ci aiuta perchè siamo molto allenati, però devo dire che, dovendo poi noi masterizzare le tracce che noi stessi produciamo, è un po’ rischioso. A volte scatta un meccanismo di loop mentale, per cui potenzialmente non c’è mai fine e spesso ci fermiamo solo quando siamo esausti.
Daniele. Le nostre percezioni sono molto sensibili, visto il lavoro che facciamo. É difficile essere sicuri che quello che percepiamo al momento sia poi il risultato che abbiamo in mente, e anche per questo è importante concedere tempo ai nostri master prima di essere rilasciati. Vanno infatti ascoltati a mente fredda e con un certo distacco, per quanto possibile.
Quando lavoriamo sulle nostre produzioni cerchiamo di concentrarci sulla capacità espressiva del suono e quindi i nostri macchinari, come compressori ed equalizzatori analogici, servono a rendere più chiaro e diretto quello che vogliamo comunicare attraverso la musica: non è mai un esercizio di tecnica fine a se stesso, in quanto, attraverso la tecnica, cerchiamo di aggiungere nuove parole al nostro dizionario artistico.
Quando invece lavoriamo per altri ovviamente non spetta a noi esprimerci sul tipo di contenuto emotivo, ma la nostra bravura consiste nel capire con quali strumenti sonori e musicali un produttore sta cercando di esprimersi, e in questo caso i nostri strumenti tecnici diventano un ponte per dare rilevanza e per mettere in enfasi questi aspetti.
Cerchiamo di compiere sempre un processo di immersione, che ci piaccia o meno il brano da masterizzare non ha importanza, in quel momento il nostro compito è di capire il brano, senza però pretendere di metterci nella testa di chi l’ha fatto, perchè è unʼoperazione concettualmente non funzionante: quello che cerchiamo é di trovare una mediazione con l’opera d’arte, non di immedesimarsi con le intenzioni del produttore.
Anche per queste ragioni le nostre tecniche a volte non sono proprio ortodosse, sono sempre concepite in funzione del nostro obiettivo.
Giovanni. Il lavoro di mastering è assimilabile al lavoro di correzione colore che si fa nel cinema, in cui esiste già la ripresa, il video è quello e lo scopo è di portare il potenziale estetico di un prodotto al suo massimo. Per la musica significa riuscire a far sentire tutti i dettagli nel modo più chiaro, e soprattutto nella techno, in cui conta tanto il kick, la cassa e il sub, significa riuscire a trovare il bilanciamento ottimale tra le frequenze basse e quelle alte, in modo che si senta il sub e le frequenze molto basse in maniera presente, senza però che queste vadano a creare un alone di oscurità sulle frequenze alte, che rischierebbe di appesantire il pezzo e nella peggiore fanno perdere il bilanciamento originale concepito dal produttore.
Addentriamoci ancora di più nel processo creativo, cʼè una divisione dei ruoli e uno scambio reciproco di idee e feedback nel momento della composizione?
Daniele. Ispirazione puó essere tutto, dalla lettura di un testo ad un pensiero e via dicendo; noi cerchiamo di dare più quanto piú spazio possibile, attraverso i suoni, a quello che ci ispira quotidianamente.
Quanto alla divisione del carico di lavoro, ogni brano ha una storia a sè, in generale cerchiamo di darci spazio o comunque di non interferire. Quindi capita che uno dei due porti una traccia in studio che poi si rifinisce insieme, o a volte dai primi loop cominciamo a darci feedbacks reciproci. Se vogliamo parlare di compiti, Giovanni ha elaborato un modo di processare l’audio in termini di effettistica e sound design che è molto particolare e lo rende responsabile della timbrica particolare che ci caratterizza nella gestione degli ambienti e nel flusso narrativo dei dettagli. Io mi occupo più del core, dei loops di partenza e delle patches di synth, ma non è mai un processo definito: a volte un loop di synth che io do a lui viene trasformato, poi mi ritorna, a sua volta viene ritrattato e diventa un beat, ad esempio.
Alla fine il nostro lavoro funziona soprattutto se c’è una dialettica umana e cʼè un rapporto di fiducia incondizionato, perchè concedere a qualcun altro i propri suoni è un enorme atto di fiducia e di apertura. A posteriori spesso ci siamo resi conto di quanto sia stato meglio lasciare continuare lʼaltro da solo. In più cʼè una volontà di crescita tecnica continua e certi suoni nascono spesso dalla sperimentazione in post-produzione di certe tecniche e così tutto quanto diventa un circolo che si autoalimenta.
Giovanni. Quello che io tento di fare con la catena di effetti di cui parlava Daniele è di creare una serie di movimenti continui a partire da loop che sono abbastanza precisi e definiti, cercando di creare una serie di livelli di lettura sovrapposti per cui, a seconda di come si ascolta la traccia, dello stato d’animo o semplicemente del sistema audio di riproduzione da cui lo si sente, ogni volta si percepisce qualcosa di diverso. Per me il limite della musica elettronica è la difficoltà a comunicare in maniera espressiva delle emozioni partendo da dei suoni e degli strumenti digitali. Non usiamo quasi mai elementi melodici, le nostre produzioni sono basate sulla ritmica, non abbiamo melodie definite con cui cerchiamo di catturare l’attenzione dell’ascoltatore; trovo che la componente melodica sia una forzatura delle innumerevoli chiavi di lettura di un brano.
Quello che cerco di fare è di creare giochi di riverberi, delay, saturazione, distorsioni e creare una massa di ambienti che vengono generati a partire dalle ritmiche e che quindi sono in continuo rapporto con la ritmica stessa e contribuiscono a formare quel suono analogico ed organico tipico delle nostre tracce. Però il punto di partenza, gli strumenti che utilizziamo sono puramente digitali, di analogico abbiamo solo la strumentazione che usiamo per il mastering e qualche effetto da chitarra, distorsori, cose anche molto cheap, che se vengono usate però nel modo giusto, riescono a dare quel carattere particolare, caldo e sporco al suono, che comunica secondo me in modo molto emotivo.
Daniele. Proprio perchè il discorso melodico non ci interessa, cerchiamo di lavorare molto sulla concordanza armonica dei nostri ambienti, e anche se utilizziamo parecchio noise, cerchiamo comunque di ottenere una coerenza armonica nei nostri brani.
Alla fine sono gli stessi metodi che trovi in altri contesti, già nel medioevo si diceva ad esempio che alcuni rapporti armonici erano gli accordi del demonio [il diabulus in musica] e sappiamo che alcuni rapporti tra frequenze tendono a creare delle predisposizioni dell’animo e della mente.
Ad ogni modo la composizione rimane per noi un terreno aperto, non vogliamo tracciare confini netti, vogliamo essere liberi di lavorare anche sul subliminale, e l’effettistica di cui parlava Gio ha un ruolo chiave a riguardo.
Per quanto riguarda i live set invece, accade la stessa cosa?
Daniele. In realtà non abbiamo una dimensione distinta tra live e studio, sono una parte integrante dell’altra.
La parte live vera e propria, intesa come performance elettronica live, è il lavoro che fa Gio sull’effettistica.
Io mi occupo di arrangiare e costruire dei loop e delle sequenze che abbiano una loro narrativa, ma senza riempire troppo la massa sonora, perchè il mio ruolo è di fornire una base sonora che sia fluida e incalzante, lasciando cosí completa libertà all’effettistica nel creare tensioni narrative.
Giovanni. La catena di effetti che utilizzo dal vivo, processando il suono che esce dal computer di Daniele, molto spesso è simile a quella che applico in studio in fase di produzione. In pratica, ogni canale va in una certa percentuale dentro a tutti gli altri, formando così una catena di effetti che interagiscono tra di loro e che io gestisco con un controller midi. Ho semplicemente 16 manopole e assegno ad ogni singola manopola una serie di parametri, in questo modo riesco a creare delle modulazioni complesse e allo stesso tempo a mantenere il sistema piuttosto semplice, cosicché posso improvvisare ogni volta dal vivo. Quando suoniamo, l’unica parte che è già predefinita sono i loop e i suoni di partenza, che sono parti delle nostre tracce prodotte in studio, disassemblate, riarrangiate e improvvisate live. Questo ci permette anche di adattare ogni volta quello che facciamo all’energia che sentiamo sprigionare dal pubblico.
Esattamente quello che succede ascoltando la vostra musica. Si percepisce un continuo flusso di materia in costruzione e decostruzione, musica liquida. Questo metodo estremamente efficace ricorda il processo della musica dodecafonica e della primissima musica elettronica, quando si cercava di disassemblare prima il sistema tonale e quindi la struttura compositiva per sostituirli con altri sistemi.
Daniele. L’approccio in parte è questo. Ad esempio mi ha sempre affascinato il modo in cui Bach compose le Variazioni Goldberg: questi canoni ipercomplessi erano basati su degli studi di logica del 1500, fornendo una base ‘algoritmica’ a sé stante e permettendo al compositore di concentrarsi sull’espressività del suono.
Avere una massa sonora di base complessa e articolata, ci da libertà e spazio mentale per focalizzarci sulla forza espressiva del suono. A riguardo possiamo fare paragoni sia con esperienze più accademiche, sia con i dub master del passato come King Tubby, ad esempio.
Giovanni. Sia nella dimensione live sia durante il lavoro di produzione in studio, per me è importante che il suono abbia una presenza fisica; il ragionamento su cui costruisco le timbriche è di creare delle tensioni emotive, modulando il rapporto tra la quantità di frequenze basse e quelle alte. Se ho delle sensazioni di chiusura ritmica, come spesso accade nella musica techno, quello che cerco di fare è di andare ad aprire questa chiusura sovrapponendo o creando delle atmosfere che partendo dalla ritmica in questione modulano la quantità di energia acustica e di pressione sonora.
Quindi se sento che abbiamo una ritmica molto potente e centrata sui bassi, cerco di far nascere da questa ritmica degli ambienti che all’inizio risultano quasi impercettibili e che poi aumentano di intensità per spostare poi il fuoco sulle frequenze alte e creare dei flussi di energia che partono dal beat e che poi si trasformano in ambienti e che poi ritornano nel beat. In altri termini la mia intenzione è di creare delle tessiture sonore che siano il più possibile organiche tra di loro e che non abbiano bisogno di definizioni estetiche di genere.
Daniele. In questo modo è facile creare delle tensioni narrative potenti, anche live, nel momento in cui ad esempio una ritmica sta andando dritta o, viceversa, quando si complica nelle sue strutture.
Giovanni. Abbiamo concepito queste dinamiche anche per far sì che il pubblico entri nella dimensione sonora che proponiamo: in parte é legata al discorso classico della techno e della musica tribale, anche se il valore intrinseco o il funzionamento di quello che facciamo tende a slegarsi da logiche canoniche di dancefloor.
A volte, in base alle situazioni, bastano pochi minuti e le persone hanno capito e ci sono dentro, altre volte c’è bisogno di più tempo. È un continuo rapporto dialettico tra noi e il pubblico, il nostro ruolo é capire che tipo di energia si sta creando e come indirizzarla in modo da farla risuonare sempre di più.
Daniele. Ho imparato molto dalle percussioni, è lì che ho realizzato come dalla minima variazione di un tocco le persone cambiano il modo di ballare e di esprimersi, creando ulteriori feedbacks ritmici per l’esecutore. Se riesci a creare questi ponti allora il risultato è fantastico.
L’indipendenza è la vostra ragione di essere, ma mi piacerebbe lo stesso sapere a questo punto la vostra considerazione del mondo IDM e ambient e quanto voi sentite di apportare al genere.
Daniele. Il nocciolo non è spingere un suono o uno stile, quella è semplicemente una forma di espressione. Noi stiamo cercando di proporre in generale un modo differente di pensare e di concepire il suono. Ad esempio, il fatto di ragionare in termini antitetici tra analogico o digitale, è una questione che non ha senso dal nostro punto di vista. Cerco di avere la mente quanto piú libera possibile da schemi precostituiti su come trattare il suono, su che patch utilizzare, su che macchina utilizzare, ecc ecc. Ovvio, abbiamo entrambi la nostra conoscenza dovuta ai nostri studi e interessi, ma ci è servita semplicemente per immaginare il suono in maniera libera.
Molte produzioni musicali in generale, non solo techno, soffrono di una certa autoreferenzialitá, andando a modificare radicalmente – e in un certo modo a ibernare – anche le tecniche compositive: in altre parole, se si inizia a pensare il suono solamente in una direzione, si rischia di usare delle macchine per raggiungere uno standard medio, creando così dei vincoli all’atto creativo. Anche parlare di scena underground come genere alternativo, quando però si utilizzano quelle stesse forme mentali che dovrebbero essere l’oggetto di critica di un approccio alternativo, diventa un controsenso.
Giovanni. La necessità che sento è di riuscire a creare della musica che stia in piedi da sola senza dover per forza far riferimento ad unʼestetica preesistente o senza il bisogno di dover appartenere ad una scena che in un certo momento funziona, e questo è un limite che trovo spesso nella musica. Sono pochi i produttori che hanno lʼindipendenza e il coraggio di rischiare ad addentrarsi in estetiche nuove; molta musica elettronica che sentiamo è una copia continua di uno stile che magari è stato creato ventʼanni fa da una persona che ha avuto la volontà di proporre una novità. Poteva avere senso proprio vent’anni fa perchè gli strumenti elettronici erano una novità e saperne trarre qualcosa di sensato con una forza espressiva paragonabile agli strumenti acustici non era semplice. Oggi nel 2013 abbiamo talmente tanti strumenti che il difficile non è creare un suono espressivo, ma è creare un’estetica complessa, qualcosa che ti faccia pensare di non aver sentito mai niente del genere. E funziona non perchè deve appartenere ad uno standard ma pechè ti comunica qualcosa di forte.
É un po’ il problema di tutto ciò che è produzione artistica contemporanea, di non incanalarsi o di non far riferimento a stili esistenti, questo ovviamente in tutte le discipline.
Daniele. Sì, la nostra attitudine non ci porta voler fare meglio o peggio rispetto uno standard, ma è una questione di identità. É un approccio che proponiamo sempre nei nostri live, anche se spesso la volontà del mercato è quella di seguire un mainstream che funziona. Ma riusciamo comunque e sempre a far esplodere il dancefloor, quindi il nostro metodo porta i suoi frutti. Ci interessa piú l’esperienza reale che il buzz attorno a quello che facciamo.
Giovanni. Abbiamo avuto anche la fortuna di collaborare con Stroboscopic Artefacts, che velocemente è passata da essere un’etichetta sconosciuta ad essere il rappresentante del nuovo nella musica elettronica. Probabilmente, se fossimo partiti con altre etichette non avremmo avuto la stessa libertà. Lucy ci da carta bianca perchè sa che i nostri lavori non sono cose già sentite, ma hanno un carattere forte, sono una fonte di innovazione, un contributo di idee. Il valore vero in un mercato saturo come quello della techno e dell’elettronica è quello di apportare innovazione, essere originali nei suoni e nelle strutture e magari allʼinizio è rischioso perchè quando qualcosa non corrisponde a delle strutture già conosciute, la maggior parte delle persone non la riconosce come valida. Grazie alla costanza nel continuare a fare quello che sentiamo nostro il pubblico capisce sempre di più cosa vogliamo dire; a volte delle persone ci scrivono che non avevano mai considerato che la musica potesse influire così tanto sulla loro percezione della vita quotidiana.
Daniele. Che poi è quello che noi sperimentiamo quando ascoltiamo musica e che quindi cerchiamo di far provare al pubblico in prima persona.
Percorriamo il percorso delle vostre produzioni più importanti, partendo da Metropolis, siamo nel 2011.
Daniele. Metropolis rappresenta il primo brano in cui ci siamo ritrovati in termini di estetica, della nostra estetica. É un brano che ci ha fatto capire che eravamo in grado di parlare chiaramente in un certo modo e a cui siamo particolarmente legati, continuiamo oggi a suonarlo live. Da Metropolis è arrivata subito la Monad VIII, che è una sorta di embrione di quello che poi è stato l’album You Are Eternity, dove abbiamo spinto ancora più liberamente il nostro modo di costruire le timbriche. La Monad è stata concepita in maniera completamente avulsa dai normali metodi di produzione, puntando soprattutto su quegli effetti psicoacustici di cui ti parlava Giovanni. La cosa si è affinata ancora di più con il remix di Xhin [Foreshadowed] in cui è stato possibile utilizzare il background di Giovanni in termini di installazioni interattive e in termini di software programming, utilizzando, con la sensibilità nella cura dei dettagli, tipici di un ambiente naturale, gestiti, in termini di produzione, più come un elemento primario che come uno sfondo.
Giovanni. Ho riciclato il software di cui ti parlavo, cercando di realizzare un sistema di effettistica che reagisse in modo semiautomatico all’audio che processavo.
Daniele. Anzichè avere rumori di ambiente c’è una continua generazione di beat e di synth creata in tempo reale dai suoni di partenza.
Giovanni. Quello che faccio, in sintesi, è di fare un’analisi audio di un beat o di una linea di synth, ottenendo dei valori numerici che vado a collegare ai parametri degli effetti di riverbero o di delay, in modo che sia l’audio stesso a controllare gli effetti. Praticamente l’audio si autoeffetta, risultando più naturale e strettamente legato allʼaudio di partenza. Il rischio è di creare un qualcosa di troppo automatico e che quindi poi non ha un contenuto emotivo e umano ma, avendoci lavorato per anni, sono riuscito a trovare un buon bilanciamento tra la componente automatica/algoritmica e quella espressiva/umana.
Daniele. Con la Monad ci siamo trovati con la difficoltà di gestire una massa di suoni di partenza già pieni prima di essere processati dall’effettistica ed è stata una lezione per capire come produrre suoni che già a monte rendono il processing relativo agli effetti perfettamente funzionale. Perciò, già in fase di pre-preproduzione riesco a capire se un beat o una patch di synth può essere valorizzata e arricchita in fase di trattamento in termini di effetti e sound design. In Way to Moksha dubbing e overdubbing, specie nel lato B, hanno avuto la stessa rilevanza dei synth; ad un certo punto si perde persino il confine tra suono ed effetto, io stesso fatico a riconoscerlo. Quell’EP ha definito parecchio la nostra identità.
Quindi questo percorso vi ha portati fino a You Are Eternity.
Daniele. Sì da quel momento, febbraio 2012, ci siamo chiusi in studio e abbiamo intensivamente lavorato al progetto per almeno un anno, utilizzando comunque suoni e loops prodotti nel passato. Da quando abbiamo cominciato, dopo un flusso continuo di creazione, abbiamo iniziato ad avere sicurezza e padronanza di quello che stavamo facendo, siamo tornati indietro nel tempo per ritrovare nei nostri hard disk del materiale audio di contenuto emotivo puro, come ad esempio nel brano Death, un brano ambient di una decina di anni fa prodotto da Giovanni: ascoltandolo abbiamo sentito che era semplicemente perfetto.
Giovanni. Questo lavoro ci ha anche aiutato a creare una collezione di tracce che non suonano come prodotte solo nel 2012, ma che contengono una palette di suoni e di strutture che magari vengono da qualche anno fa o da esperienze emotive che appartengono a momenti della vita in cui eravamo diversi da come siamo adesso. Trovo che questo sia molto importante perchè spesso, finchè devi fare un singolo che suona con una fortissima identità e che puoi individuare come il suono del 2012 può andare bene, però quando devi produrre un album, per la mia sensibilità mi piace sentirci unʼestensione e una varietà di suoni e di atmosfere che sia il più ampio possibile. Quando sento un album mi piacerebbe che fosse un viaggio e che non fosse chiuso in un momento preciso, e penso che il nostro album sia così, un percorso.
Un percorso decisamente personale e soggettivo, in base alla condizione emotiva in cui si ascolta.
Giovanni. Ad esempio il brano di cui ti parlava Daniele, Death, mi è uscito mentre ero a letto a notte fonda con il mio laptop e gli auricolari ed ero in uno stato d’animo pessimo per motivi personali. Sono momenti in cui vivi una dimensione emotiva che è difficile da avere in studio quando ti siedi per produrre.
Daniele. Soprattutto per l’album abbiamo cercato di non cadere in una trappola che ci eravamo creati da soli, come in Way to Moksha, cioè di partire da brani che avevano il loro interesse in termini di emotività, per finire poi con il lavorare cosí tanto in studio da snaturarne l’essenza.
Durante la produzione di You Are Eternity siamo stati molto anarchici: soprattutto nella prima fase di produzione non é esistita la dimensione di studio, quindi abbiamo cercato di preservare, attraverso le nostre conoscenze tecniche, quei momenti magici. Ad esempio, unʼaltra traccia che per me è molto importante è Truth, scaturita nel momento in cui stavo guardando un video in cui c’era Alan Greenspan, l’ex governatore della Federal Reserve, che candidamente dichiarava che forse aveva sbagliato idea riguardo alle politiche anticrisi e in generale riguardo alla sua visione di mondo e di economia: ti giuro che in quell’istante ho provato una sensazione di rabbia profonda. E quella rabbia, trasposta in una patch di synth, deve essere preservata come un reperto archeologico, per cui la nostra sensibilità è stata quella di cercare di mantenere vivo, lucido e spesso anche rude il carattere della nostra musica.
E quindi torniamo al vostro personale istinto creativo, che combacia con l’idea di suono che volete ottenere quando fate mastering.
Giovanni. Che suoni vero, come qualcosa che deriva dalla vita e non come da un produttore che va in studio e deve fare lʼalbum. Io voglio che le mie emozioni arrivino allʼascoltatore come onda di pressione che esce dalle casse e la sua sensibilità ci ricaverà qualcosa, qualche senso o qualche emozione. Per me fare musica tanto per fare un album non ha senso, ormai tutti possono fare musica, quindi quando ascolto qualcosa voglio che mi suoni vero, parte di una vita, come una persona che incontri per strada e ti racconta parte della sua vita. Questo abbiamo cercato di fare.
Un’altra traccia dellʼalbum che abbia una storia particolare, magari una feature?
Daniele. La collaborazione con King Cannibal in Transfer. Qui i loop sono usciti immediatamente, loop che ho dato a Giovanni che ha arrangiato nell’arco di un’ora e mezza. Abbiamo realizzato un lavoro stupendo in un arco di tempo estremamente breve soprattutto se confrontato con le nostre normali tempistiche. In quel momento ho veramente avuto la percezione che ci fosse qualche altra cosa che stesse parlando al posto nostro.
Giovanni. Questo è un altro aspetto importante. Quando faccio musica non mi sento come un pittore che vuole trasmettere una sua emozione sulla tela, quello che sento è che sono solo un catalizzatore di energie che passano attraverso me e che cerco di mettere in forma di musica, tentando di rimuovere il mio ego il più possibile e cercare di – anche se può sembrare Zen – non fare qualcosa che esprime le mie intenzioni ma di lasciare al suono stesso il controllo. Io magari faccio qualcosa, sento il risultato, cerco di dargli una certa forma, senza mai forzare troppo la mano. Questo l’ho imparato tramite tante esperienze e fallimenti, che soprattutto nel processo artistico e musicale, quando si cerca di forzare troppo il percorso naturale delle cose, non si ottiene il risultato sperato. Paradossalmente, mettendoci meno intenzione riesci ad avere dei risultati che sono più vicini ai propri desideri.
Daniele. L’altra feature con Fabio Perletta aka Øe è nata in maniera naturale, perchè Fabio è un nostro carissimo amico e con lui condividiamo un approccio comune nel cercare di comunicare la nostra sensibilità. Stavamo scambiando esperimenti di sintesi del suono e Fabio ci diede dei drones realizzati utilizzando la perdita di dati dovuta alle codifiche digitali, sostanzialmente simulando un rendering infinito fino ad ottenere una sgranatura particolare, dovuta alla degradazione del suono stesso. Abbiamo aggiunto beats & bass – ottenuti semplicemente partendo da sinusoidi digitali – e la traccia è venuta da sola. Con Tony, Edit Select, ci siamo conosciuti al Melt nel 2011 e, anche se lui viene da un altro background, abbiamo sentito un rapporto umano intenso e non c’è stato bisogno di troppe parole per capire che avevamo qualcosa in comune, e abbiamo deciso di colalborare. Quanto a King Cannibal ci ha influenzato molto nella costruzione dei beat, nelle tensioni sui beat, noi siamo grandissimi fan dei suoi vecchi album. Invece per Fabio e Tony è stato uno scambio assolutamente umano.
Potremmo continuare per ore, ma è il momento di lasciarci, è stata un’esperienza interessante capire i processi e la poetica che sta dietro alla musica dei Dadub. Li aspettiamo presto in Italia!
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